Didattica: materie Stem in inglese sin da piccoli

Didattica: materie Stem in inglese sin da piccoli

Chi l’ha detto che matematica non possa essere insegnata in inglese?

In un mondo sempre più interconnesso, con esempi in diversi Stati Europei dove la didattica plurilingue a scuola è la normalità, ci si può chiedere perché nella scuola italiana si utilizza esclusivamente la nostra lingua (fatta eccezione per le sezioni Cambridge delle scuole superiori).

E non parlo solamente di scuole superiori, ma di un approccio multilingua sin dalla più tenera età, perché proprio in fascia 0-6 anni le lingue si possono apprendere parallelamente e allo stesso livello — con monte orario equamente suddiviso e con insegnanti specifici madrelingua – senza dunque necessità di passare dalle obsolete traduzioni.

Il percorso può poi continuare in primaria, con – per fare un esempio – le materie dell’ambito Stem previste esclusivamente in lingua inglese, o altra lingua comunitaria. Ovviamente con insegnanti dedicati e specializzati, meglio se madrelingua. I benefici sarebbero molteplici: l’utilizzo della lingua in maniera costante e quotidiana, non relegata alle insufficienti 2 ore e slegata dalla realtà, permetterebbe un apprendimento più rapido e soprattutto un utilizzo spontaneo ed automatico, riducendo sempre più la necessità della traduzione. Ne gioverebbe anche la pronuncia e ne beneficerebbe l’elasticità mentale. Il learning by doing è il modo migliore per apprendere la lingua inglese, soprattutto da piccoli.

In secondaria di primo grado, prendendo esempio da una scuola privata di Roma, potrebbero essere previste 30 ore curricolari settimanali – con tempo pieno dalle 8:30 alle 16:30, orario  che include anche una o due ore giornaliere di studio libero, con i docenti a disposizione degli alunni per progetti extra curricolari e chiarimenti o approfondimenti – di cui 12 in lingua francese, 11 in lingua inglese, 7 in lingua italiana e 2 di un’ulteriore lingua a scelta. Per tutte le lingue è previsto lo studio di grammatica e letteratura, il resto delle materie suddiviso equamente tra francese e inglese prediligendo la prima per le materie umanistiche e la seconda per le materie scientifiche. A queste si aggiungono le specifiche materie del percorso italiano per la preparazione dell’esame di terza media. 

Senza arrivare ad un tale livello di multilinguismo, già un monte orario suddiviso al 50% tra italiano ed inglese, o altra lingua, potrebbe rappresentare un sicuro passo in avanti per innovare la nostra scuola ed arricchire in nostri alunni con una conoscenza e padronanza della lingua a ben più elevato livello rispetto all’attuale. 

Un rinnovamento della scuola, partendo proprio dalla didattica e dai programmi, è assolutamente auspicabile; il modello di scuola “internazionale” si sta diffondendo sempre di più sul nostro territorio, purtroppo solamente per pochi alunni perché al momento sono solamente scuole private: si possono prendere ottimi spunti da replicare per tutti o quantomeno in sezioni sperimentali a scelta delle famiglie.

Ma servono investimenti in strutture adeguate, in docenti specializzati madrelingua ed investimenti nel mondo della scuola a livello di altre nazioni europee. Siamo purtroppo ben lontani: basta pensare che l’Italia ha investito in istruzione negli ultimi anni in media il 4% del Pil, con Svezia e Danimarca a guidare la classifica con il 6.9% e il 6.4%. La Francia e la Germania si assestano intorno al 5%. Non c’è da andare fieri. 

Le nuove generazioni sono il futuro di una Nazione, ed un Paese che non investe adeguatamente nella loro istruzione è un Paese che non crede nel proprio futuro. Forse è anche per questo motivo che portare innovazione nella scuola sembra sempre più una lotta contro i mulini a vento, anche se sono tanti i dirigenti scolastici ed i docenti che ogni giorno ci provano e combattono per i nostri ragazzi. Ma questa battaglia dovrebbe essere di tutti, iniziando anche dai genitori. Lo dobbiamo ai nostri figli.

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