Zoccole. Racconto di ferragosto

Zoccole. Racconto di ferragosto

Come le trascorrete voi le nottate afose di questa estate stracalda? Uno che abita in città e ci deve rimanere per forza anche a ferragosto ha come unica via di scampo quella di tenersi il più possibile al chiuso in casa o in ufficio durante il giorno per poi cercare di riprendere fiato con lunghe passeggiate al calare del sole.
Qui a Napoli, la passeggiata estiva notturna che preferisco è sicuramente quella al centro storico, in giro per i decumani. Gente ce n’ è fino all’ alba, ed il fascino di passeggiare senza meta in un posto dove quest’ abitudine ha duemila e cinquecento anni, non ha prezzo.

E insomma, mi capita di fare uno di questi interminabili giri giusto un paio di giorni fa e, poco prima dell’ alba, di incrociare per la via di San Pietro a Majella un paio di signore affaccendate a ripulire la strada con paletta e ramazza, davanti ai negozi dopo l’ ingresso monumentale del Conservatorio.

Le signore, evidentemente anche loro in giro per evitare il caldo della casa e del letto, parlavano tra di loro e intanto, come potei vedere chiaramente, stavano pulendo la strada dalla carogna di un topo morto.

La più giovane e dinoccolata diceva che forse sarebbe stato meglio aspettare che arrivasse il netturbino dopo qualche ora. L’ altra, più tarchiata e anziana, alzando il tono della voce fino a farlo diventare stridulo rispose che non era proprio il caso. E per spiegare il rischio che si correva a lasciare lì quel topo morto, cominciò a raccontare all’ amica quello che era successo, proprio in quel posto, neanche dieci anni prima.

La storia che raccontò, disse che le era stata riferita da una signora che abitava di fronte a lei fino a qualche anno prima. Ci tenne a dire che lei non si inventava niente e che proprio così le avevano riferito. Io mi incuriosii talmente che in men che non si dica mi ritrovai fermo ad ascoltare. La signora mi guardò e fermò il racconto ma solo per per un momento, giusto il tempo di squadrarmi dalla testa ai piedi. Poi senza colpo ferire, per nulla intimorita, anzi quasi galvanizzata dal pubblico inaspettato, riprese a raccontare, sottolineando con la voce ed i gesti delle mani ogni particolare anche piccolo, di quella storia.  

E questa è la storia che sentii raccontare quella sera…

Com’ è che zia Carlotta cadde a San Pietro a Majella

La nottata era stata afosa, di quel caldo appiccicoso che toglieva il respiro e pure la voglia di mangiare. Oramai albeggiava. Eravamo quasi arrivati a casa quando zia Carlotta diventò scura scura. Gli occhi si fecero improvvisamente paonazzi ed i baffi le si abbassarono. Non ebbe nemmeno il tempo di girare la testa che cadde lunga com’ era sul marciapiede mentre Carmine e Michele continuavano a trotterellare avanti senza accorgersi di niente.

Fu Concettina, la più piccolina, a vedere tutta la scena e a dare l’allarme scoppiando in un pianto convulso misto a sibili disperati.

«Glielo avevo pure detto di non abbuffarsi con questo caldo» bofonchiò con un tono più seccato che dispiaciuto zi’ Rafele, il fratello più grande della zia. Erano tornati indietro anche Carmine e Michele e tutti assieme stavamo attorno al corpaccione della zia senza dirci niente, guardandoci negli occhi senza sapere che cosa fare.

«E mo’ che facciamo ‘o zi’?» chiese Carmine a zi’ Rafele. «E che vuoi fare, Carminu’;  fai una corsa a casa e avverti zio Ferdinando che la moglie si è sentita male sotto San Pietro a Majella». Carmine non se lo fece dire due volte. Girò la testa e corse a rotta di collo verso casa della zia ringraziando in cuor suo di potersi allontanare da quella situazione che lo imbarazzava più che fargli paura.

Intanto era diventato giorno. «Picceri’, tra poco comincerà a passare gente. – disse lo zio – Non possiamo stare qua in mezzo. Ci dobbiamo trovare un posto riparato mentre arriva Ferdinando». E si spostò verso i cassonetti dell’ immondizia appena svuotati all’ angolo della strada facendoci segno di seguirlo.

Concettina continuava a piangere. Era molto attaccata alla zia, povera piccolina. Specialmente da quando la sua mamma non era più tornata a casa e nessuno aveva saputo dire che cosa le fosse successo. Non che capitasse raramente veder sparire qualcuno dalla sera alla mattina, intendiamoci. Ma, quando capitava, era oramai regola tacitamente accettata quella di non farsi troppe domande e lasciar perdere spiegazioni e chiarimenti.

Neanche il tempo di arrivare sotto al muro che sentimmo distintamente il cigolio delle rotelline del carrellino di Giggino.  Era un umano secco secco, con una testa piccola ed il mento appuntito. Sulla faccia un poco di barbetta incolta, rada e bianca, e in bocca sempre una sigaretta accesa. Ogni mattina, puntuale, veniva a spazzare il suo pezzo di strada. Con la tuta più grande della sua misura, un paio di guanti enormi e la scopa di plastica, più che spazzare pareva desse gli ultimi ritocchi al salotto. Una carta rimasta qua. Una scorza di melone qualche metro più avanti. Tutto quello che poteva risaltare alla vista lo ammonticchiava in un angolo con flemma snervante. Quando gli pareva che non ci fosse più niente di visibile che gli avrebbe potuto causare un rimprovero dai suoi superiori, apriva il secchio che stava sul carrello, prendeva la pala e raccoglieva il suo mucchietto di rifiuti visibili. Poi si toglieva i guanti e aspettava che finisse il suo turno di lavoro seduto al tavolino del bar di rimpetto.

Quando vide zia Carlotta per terra gli dovette venire un colpo. Si pietrificò ad osservarla per un minuto buono, cercando forse di capire se a lasciarla così qualcuno lo avrebbe rimproverato. La risposta che si dovette dare fu evidentemente negativa. E come se niente fosse continuò a cercare rifiuti vistosi da rimuovere scansando la povera zia come se non ci fosse nemmeno.

Zi’ Rafele cominciava ad innervosirsi. Oramai i negozi stavano per aprire e di zio Ferdinando neanche l’ ombra. A un certo punto si irrigidì. Puntò lo sguardo e le orecchie in direzione di port’ Alba e ci fece segno di stare il più nascosti possibile. Si sentiva venire dalla strada un rumore cadenzato di passi, accompagnato dallo ‘scrocchio’ tipico di quelle scarpe belle e costose che usava sempre don Eduardo il libraio. Don Eduardo era un bel tipo. Un signore d’ altri tempi in perenne lotta contro la sciatteria e la faciloneria che, ne era convinto, erano diventate il vero cancro di Napoli. Ogni mattina apriva puntuale alla stessa ora, e ogni mattina, puntualmente, prima di aprire andava ad acchiappare Luigi lo spazzino dal tavolino dove stava seduto e lo costringeva a raccogliere qualche rifiuto che gli era sfuggito. Ma che non era sfuggito a lui, che il tragitto da casa al negozio lo faceva fissando la strada alla ricerca di sporcizia ed imperfezioni. «Io faccio il mio dovere – diceva sempre don Eduardo – e allora non capisco perché qualcun altro possa farmi un danno pretendendo di non fare il suo».

Il negozio si trovava nemmeno un paio di metri dopo il posto dove era caduta la zia e, sicuramente, vedendola stesa in quel modo lì davanti avrebbe dato in escandescenze. E infatti, appena la vide si fermò di botto, cominciò a sacramentare e raggiunse di scatto Luigino che, avendo già previsto tutto, non fece una piega e rimase seduto a sorseggiare il suo caffè senza alzare lo sguardo dal giornale mentre l’ agitatissimo libraio parlava e gesticolava senza riuscire a calmarsi.

Com’ è che zia Carlotta divenne intoccabile

intoccabile

«Dottò, non è di mia competenza» tagliò corto Luigino senza nemmeno alzare la testa dal giornale.

Il libraio perse improvvisamente vigore. Smise di gesticolare e con tono preoccupato, più che rassegnato, chiese «e chi la deve levare quella zoccola morta da sotto al negozio mio?».

«Chiamate il numero verde. – rispose lo spazzino – Quelli vengono subito gli esperti con le attrezzature adatte e se la portano dopo avere disinfettato tutto. E’ pure una questione di igiene» scandì Luigino alzando lo sguardo e fissando serio un don Eduardo oramai disarmato dalla risposta che non lasciava scampo. Perché il “non mi compete” dello spazzino equivaleva ad un biglietto di ingresso nel circo della burocrazia cittadina, nel quale si può entrare in qualsiasi momento, senza sapere però se ci sarà mai ritorno.

«E voi lo tenete questo numero verde?» chiese don Eduardo rassegnato. «No dottò, non lo so… ve l’ ho detto, a me non mi competono queste cose. Però se cercate sopra internet lo trovate sicuramente» rispose frettolosamente un oramai distratto Luigino, certo di aver fatto ben più del suo dovere dando quelle precise informazioni al libraio. Soddisfatto ammutolì, tornò con lo sguardo al giornale e si accese una sigaretta.

Per la verità, a Don Eduardo venivano in mente un sacco di obiezioni sensate da fare allo spazzino, ma sapeva che a quel punto la soluzione se la doveva cercare da solo. Si girò, tornò verso la saracinesca del negozio, e prendendo dalla tasca il suo telefonino cellulare (al quale aveva orgogliosamente resistito per lungo tempo, ma poi aveva dovuto ammettere “oramai è una necessità”) provò a cercare il famoso numero verde. Subito lo trovò. Senza pensarci sopra toccò lo schermo dove era scritto “effettua chiamata” e rimase ad aspettare qualcuno con cui parlare. Rispose una voce registrata che diceva di aspettare perché gli operatori erano tutti occupati.

Mentre apriva la saracinesca gli rispose finalmente qualcuno. «Buongiorno, mi dica». «Senta, chiamo da san Pietro a Majella, qui c’ è un topo morto…». Non ebbe nemmeno il tempo di finire la frase che la voce dall’ altro capo del telefono lo fermò «non è di nostra competenza, signore». Il libraio si sentì di nuovo perduto: «come non è di vostra competenza? Mi ha detto un vostro operatore che il numero verde serve per i rifiuti speciali…». «Certamente – rispose impassibile la voce – ma un ratto morto non è un rifiuto speciale, ma carogna di animale morto per causa diversa dalla macellazione. La rimozione della carogna è riservata esclusivamente ai servizi della ASL…».

Don Eduardo non ci poteva credere. Era successo proprio quello che più temeva: era entrato nell’ orrenda spirale dello scaricabarile tra uffici pubblici. «Ma me lo devo togliere da solo?» sibilò contrariato. E la voce, per niente turbata dal tono, spiegò «assolutamente no. Dovete chiamare l’ ufficio rimozione carogne della ASL di appartenenza. Se lo doveste rimuovere voi commettereste un’ infrazione al regolamento comunale. E che ne sapete che quel topo non è portatore di malattie gravissime? E se lo toccate e mischiate qualcosa a tutti quelli che incontrate? Chiamate la Asl che quelli vengono con le attrezzature adatte, ma non lo toccate, per carità…».

Rimase di sasso. Anche lì non c’ era più niente da fare: bisognava rassegnarsi e chiamare la Asl. Prima di attaccare, riuscì a chiedere con un filo di voce «mi potete dare il numero di questo ufficio per le carogne?». «No signore, spiacente. Però lo trova facilmente sull’ elenco telefonico o in internet. Buongiorno.» E riattaccò.

Intanto bisognava aprire il negozio. Avrebbe continuato dopo la ricerca. Però la rabbia che cominciava a montare doveva trovare sfogo in qualche modo. Senza riporre il suo cellulare si collegò al primo social network che aveva a disposizione e scrisse: “A San Pietro a Majella una zoccola morta giace, destinata a restar lì, ostaggio della burocrazia”.

«Io poi non li sopporto proprio a questi quando cominciano a dire zoccola tutti schifati» sbottò improvvisamente zi’ Rafele che non aveva detto una parola per tutto il tempo. «Quasi quasi pare che se sbatteva a terra la chiattona del terzo piano, la signora Ascione, ci facevano venire ‘e criature a farsi le foto ricordo…ma jatevenne…».  

Com’ è che don Eduardo divenne il nemico del popolo sovrano

pasta cresciuta

La saracinesca era alzata, Fofò, il commesso, era in piena attività alle prese con una coppia di clienti che pareva promettere bene, Don Eduardo il libraio decise che ora poteva dedicarsi alla ricerca del numero giusto per far pulire la strada. Stava cominciando a far caldo e c’ era da scommettere che entro qualche ora quell’ animale morto lì fuori avrebbe cominciato anche a puzzare.

Si sedette al computer nel retrobottega e cominciò ad interrogare il suo motore di ricerca preferito cercando tra i numeri degli uffici quello che serviva a lui. Il punto è che non sapeva che cosa cercare. Provò con le parole chiave “rimozione topo morto”. Il primo risultato che gli apparve era un tutorial video dal titolo “Come togliere i topi morti e non contaminare la casa di batteri!”. Decise che non era il suo caso e continuò a scorrere i risultati, imbattendosi in un altro tutorial per eliminare l’ odore di topo morto dalla propria auto. Poi fu la volta di una lettera al direttore su di un blog sconosciuto del trevigiano in cui veniva posto il problema della rimozione delle carcasse di cani morti lungo la strada statale, e poi della cronaca di una polemica tra Preside e bidelli di una scuola di Castellammare su chi dovesse recuperare le vittime della derattizzazione in presenza di allievi a scuola.

Insomma, niente di adatto al suo caso.

Ad un certo punto venne distolto dalla ricerca da una sequenza ripetuta di bip che provenivano dal suo cellulare. Lo prese dalla tasca e lesse: ventiquattro messaggi in attesa. Che cosa era successo, si preoccupò? Chi lo cercava così insistentemente? Poi si ricordò del suo messaggio di poco prima e realizzò che erano le risposte che stavano arrivando. E quante erano!

Si collegò al suo account dal computer per poter leggere meglio ed incuriosito cominciò a scorrere le risposte, scoprendo che in pochi minuti il suo messaggio aveva generato un acceso dibattito scivolando ora nella politica, ora nella sociologia cittadina.

A parte gli amici che scherzavano giocando sull’ ambivalenza del termine “zoccola” e quelli che invitavano all’ adozione di gatti, la maggior parte erano commenti di chi leggeva in quello sfogo una maniera per prendersela con l’ amministrazione comunale per la quale era nota l’ antipatia di don Eduardo.

«Ogni scusa è buona per prendertela con il Sindaco. – scriveva uno – Che ci vuole a rimboccarsi le maniche e mettere il topo nell’ immondizia da solo? ». E un altro, più feroce: «vergognati, sputtani la nostra bellissima città solo per farti un po’ di pubblicità. – e a provare la pochezza ed il provincialismo di quello sfogo, la chiosa da giramondo – Queste cose succedono dappertutto, io ho visto topi morti per strada anche a Londra, Parigi e New York».

A lasciarlo a bocca aperta fu il messaggio di “pasta cresciuta”, un nickname assai noto tra i pasdaran dell’ amministrazione.

Fuori dal mondo virtuale, “pasta cresciuta” era la versione moderna del proverbiale “stracciafacente” napoletano. Il soprannome lo doveva alla forma della testa, tonda e butterata, che ricordava le zeppole fritte, appunto di pasta cresciuta. L’ estrema magrezza del corpo e l’ abitudine ad inforcare occhiali dai vetri scuriti rendevano la sua figura una sorta di disegno satirico ambulante, inconfondibile perfino da lontano.

Non era chiaro a nessuno (né lui teneva a far sapere precisamente) di cosa vivesse. Si mormorava in giro dei suoi trascorsi lavorativi finiti tutti malissimo e dello stipendio preso da non si capiva da quale ente pubblico o para pubblico che per oscuri motivi continuava a tenerlo a libro paga.

Negli anni si era auto attribuita un’ immagine da indomito tribuno della plebe. Non si contavano i suoi j’accuse spericolati, come non si contavano le sue disinvolte marce indietro e gli scivoloni clamorosi. Ma per “pasta cresciuta” non esistevano le brutte figure: sapeva, forse istintivamente, che la gente dimentica facilmente. Così, se sparava a zero su qualcuno, poteva accadere che il giorno stesso gli dichiarasse amore incondizionato. Quello che contava era la rete di legami “utili” che era riuscito a costruire nel tempo.

La tecnica era sempre la stessa. Qualche insinuazione poco verificabile sul conto dell’ obiettivo da puntare, qualche frase offensiva scritta con tutta la retorica post operaista degli anni ’70, affermazioni tranchant del tutto opinabili spacciate per verità indiscutibili in nome del popolo, dei morti sul lavoro, delle donne, degli sfruttati… Insomma, un mix tra qualunquismo e politically correct capace di suscitare riflessi condizionati nel pubblico politicizzato della città decadente. E di preoccupare il Palazzo che, immancabilmente, preferiva trovare un compromesso per disinnescare la mina vagante.

Stavolta “pasta cresciuta” se la prendeva con lui e con il suo post sul topo morto. Gli dava del fighetto viziato (e fin qui…), ma soprattutto denunciava quel messaggio come parte di una più complessa strategia di attacco ad un’ amministrazione che, a suo dire, faceva gli interessi del popolo e per questo dava fastidio a potentati economici non meglio identificati, interessati a svendere la città ai banchieri internazionali. Il consueto delirio, insomma, non fosse che un pezzo grosso dell’ amministrazione, l’ingegner De Cocchis, rispondeva immediatamente sposando in pieno la tesi del complotto per poi sottolineare come don Eduardo sapeva bene che la rimozione del cadavere di ratto in quella strada toccasse alla Curia e non al Comune (chissà poi perché avrebbe dovuto saperlo, si chiese don Eduardo). Ed, infine, invitava sdegnato a disertare l’ acquisto di libri in quel negozio che, chiaramente, perseguiva gli interessi delle multinazionali piuttosto che quelli del vessato popolo napoletano.

Qualcun altro avrebbe riso di gusto, ma don Eduardo no. Don Eduardo si preoccupò.

Com’ è che don Eduardo si risolse a raccogliere da solo il topo

pifferaio magico

«Si, si… è tanta… ‘na zoccola tanta… come quanto? Un braccio… no, dal gomito…»

L’ attenzione di don Eduardo fu attirata dalla voce di Fofò. Parlava del topo, ma con chi stava parlando? Si affacciò dal retrobottega e vide il ragazzo al telefono, in piedi dietro al bancone che, gesticolando, si dava da fare per descrivere con dovizia di particolari l’ animale al suo interlocutore.

«Venti centimetri? Nooo, di più … trenta, perlomeno… ma pure di più… fate trentacinque…»

«Fofò – urlò don Eduardo – jamme bello che ci sta gente» Fofò riattaccò il telefono e sporse la testa nel retrobottega.

«Ma non ci sta nessuno, cavalie’»

«E mi era sembrato» disse il libraio continuando a fissare lo schermo del computer. Poi, cercando di mostrarsi distaccato chiese «chi era a telefono?»

«Un giornalista del Diuturno, ‘o giurnale. Dice che hanno saputo che qua fuori ci sta una zoccola morta che nessuno vuole levare e ha chiamato per sapere come era questa zoccola».

Per poco a Don Eduardo non venne un colpo. Dopo “pasta cresciuta” e l’ ingegner De Cocchis, solo il Diuturno ci mancava, pensò…

Il giornale del Cavalier Licata era stato determinante per far vincere il ballottaggio al sindaco tre anni prima. Per ricambiare la cortesia, una volta eletto, il sindaco aveva messo un po’ di persone gradite al Cavaliere in posti importanti. Senonché avevano litigato ferocemente per una questione di certi terreni che non si capiva di chi dovessero essere e il grande amore si era trasformato in odio aperto.

Il Diuturno, che bene o male era l’ unico giornale che leggevano proprio tutti in città, aveva cominciato una campagna puntigliosa su tutti i disservizi che l’ amministrazione non aveva risolto o, peggio ancora, aveva creato per incapacità manifesta. Agli attacchi del giornale, il Sindaco replicava accennando a mezza bocca ad interessi poco puliti del Cavaliere che si era rifiutato di assecondare e che gli erano costati l’ interessata ostilità da parte della testata cittadina.

Non ci voleva molto ad indovinare che il prossimo argomento del Diuturno contro il sindaco sarebbe stato quel topo morto lasciato lì al sole. E don Eduardo già si immaginava i commenti compiaciuti di quelli che avrebbero trovato nell’ appoggio del giornale al soldo degli interessi dei nemici dell’ amministrazione, l’ indiscutibile conferma all’ assurda teoria del complotto.

Il complotto della zoccola morta, pensò il libraio. E in un attimo prese la sua decisione: il topo da terra lo avrebbe tolto lui. Era l’ unica maniera per evitare di trovarsi a fare il vaso di coccio tra i vasi di ferro nella guerra tutta mediatica dell’ amministrazione.

Don Eduardo già si vedeva circondato da spie del sindaco pronte a sputtanarlo sui social network con fotografie equivoche, notizie scandalose, insinuazioni malevole. Non che avesse qualcosa da nascondere, ma la tecnica usata dal sindaco e dai suoi fedelissimi per demolire gli avversari non aveva bisogno di fatti reali. Bastava un raccontino ben articolato, che legasse qualche fatto vero con ipotesi fantasiose, ed ammiccasse a qualche luogo comune di facile presa, per relegare irrimediabilmente il malcapitato tra i cattivi da mettere al bando.

Aprì la porta sul retro del negozio, scese la lunga scalinata che portava al vecchio deposito attrezzato e con l’ aiuto di una torcia cominciò a rovistare tra le cose ammonticchiate da decenni. Recuperò un vecchio paio di guanti da motocicletta, uno sciarpone invernale di lana pesante e degli occhialini da sub che giacevano lì coperti di polvere. Prima di risalire agguantò un coperchio di cartone rimasto orfano della sua scatola, e si fece coraggio pensando che era l’ unica cosa da fare. Tornato nel retrobottega batté la polvere dagli indumenti che aveva recuperato, pulì le lenti degli occhialini e prese un sacchetto per l’ immondizia nero. Inforcò gli occhialini tenendoli ben aderenti alle orbite degli occhi, indossò la sciarpa a coprire la nuca ed il volto, calzò i guanti e con il sacchetto aperto nella mano sinistra ed il coperchio di cartone nella destra uscì sulla strada.

Determinato a portare a termine la sua missione, si diresse deciso verso il topo. Ma appena ne intravide la sagoma non poté fare a meno di provare uno schifo incontrollabile. Sentì lo stomaco rivoltarsi e dovette fare uno sforzo per continuare ad avvicinarsi reprimendo i conati di vomito che montavano. La carogna era lì, a pochi centimetri di distanza dalle sue scarpe. Cercava di non guardarla direttamente, di non mettere a fuoco. Intravedeva il fagotto gonfio ed inerte, «ma è morto, quindi di che dovrei avere paura?» si fece coraggio. Intanto sentiva un copioso rivolo di sudore scendergli dietro la schiena, complice forse lo sciarpone di lana, mentre le lenti cominciavano ad appannarsi.

Due passanti, forse turisti, che da lontano avevano visto quella strana scena, passarono all’ altro capo della strada sorridendo e con i cellulari cominciarono a fotografare quello strano essere che sovrastava il topo morto.

Il libraio pensò qualcosa del tipo «ora o mai più», e con uno scatto improvviso si chinò. Aveva disteso a terra il sacchetto aperto e con l’ altra mano aveva posizionato il cartone lungo il corpo dell’ animale, pronto a dare il colpo necessario a farlo scivolare dentro.

Decise di contare fino a tre e poi di compiere finalmente l’ ardita operazione. «Uno», ma nemmeno aveva finito di pensarlo che senti una voce alle sue spalle urlare: «Fermi tutti! Nessuno tocchi quel ratto!»

Come finì la storia di don Eduardo e della zoccola Carlotta

topo

«La informo, caro signore, che asportando quel ratto, in quanto oggetto inanimato abbandonato su suolo pubblico, lei si appropria indebitamente di una proprietà del Comune» continuò con tono perentorio la voce alle spalle del libraio.

Don Eduardo, che aveva consumato tutto il suo coraggio per chinarsi a sollevare il topo, lasciò cadere il coperchio di cartone e il sacchetto che aveva nelle mani e scattò all’ impiedi. Si girò per replicare, ma dalla bocca non uscirono suoni. Oppresso dal caldo abbassò lo sciarpone di lana che gli copriva il volto e sollevò gli occhialini completamente appannati.

«Ma siete voi, don Edua’ – riprese petulante la voce, che assunse però un tono femminile e suadente -. E chi vi aveva riconosciuto… mannaggia ‘a capa vostra… ma come vi viene in mente di appropriarvi di un bene comunale… e poi, un uomo pieno di lustro come voi, che figura ci fate sulla pubblica via combinato di quella maniera e cu’ ‘o sacchetto d’ ‘a munnezza ‘mmano…».

A parlare era stata la Marchesina Tazio. Che poi in realtà era Assuntina, la viziatissima figlia unica di donna Luisa Spagnuolo, la proprietaria del negozio di scarpe all’ angolo di piazza del Gesù. Solo che, da quando il Sindaco aveva abolito le circoscrizioni e aveva ripristinato gli antichi sedili, aveva recuperato il vecchio titolo nobiliare del defunto marito, il notaio Tozzi, per sedere come rappresentante dell’ ottina di via San Sebastiano. Non era bella, senza che però la si potesse definire brutta. A consigliare di starne alla larga, era quel suo smodato desiderio di primeggiare, una voglia incontenibile di essere omaggiata e riverita che si portava appresso fin da bambina. Quando aveva sposato il vecchio notaio, era rimasta impressionata da come tutti lo venerassero per la grande cultura e l’ ancor più grande bontà d’animo. Poi si era convinta che lei non fosse da meno, senza accorgersi di come i latinismi in bocca a chi non conosce il latino procurino sorrisi a mezza bocca, più che autorevolezza. Le ultime parole del vecchio prima di spirare la offesero mortalmente: «non è arte tua, Titi’. Tu ti credi che sei più intelligente degli altri e ti pensi di fare fesso qualche povero disgraziato guardandolo dall’ alto in basso, impapocchiandolo con qualche parola difficile. Non è arte tua…» ripeté, e spirò. Alle parole del vecchio Assuntina rimase attonita. Le venne per un momento voglia di piangere per la rabbia. Ma subito le passò, pensando: «puveriello, è stata l’invidia a farlo straparlare così».

A contatto con l’ aria fresca Don Eduardo riprese quel minimo di lucidità necessario per rivolgersi alla Marchesina seccato: «Assunti’, ma ti pare che mi fottevo ’na zoccola morta? Io sto da stamattina a cercare chi se la deve venire a pigliare, qua pare pure che ci stanno le cospirazioni, mo’ ti presenti tu…».

Non aveva ancora finito la frase che la Marchesina lo interruppe gioviale «e io che ci sto a fare, Edua’? Quello il sindaco ha chiamato al delegato nostro per sapere che stava succedendo, e indovina a chi ha chiesto il delegato? Indovina?»

«A te…» disse con una voce flebile Don Eduardo.

«Eh! A me, a me. E io gli ho subito detto, eccellenza, non vi preoccupasse, mo’ mi reco direttamente in loco a vedere che sta succedendo. Ho sceso le scale, ho acchiappato a Leopoldo, e ho fatto una corsa fino a qua sopra. O’ vide ‘a Leopoldo che sta parlando a telefono? Sta rintracciando l’ ufficio proposito al caso nostro. Massimo una mezzora e il ratto lo facciamo sparire così come è apparito». E rimase giuliva e sorridente.

Don Eduardo si sentì preso dallo sconforto. Non sapeva se ridere o piangere e intanto fissava Leopoldo, il tuttofare di Assuntina. Era un uomo dall’ età indefinita, basso e tarchiato, completamente calvo e con due baffoni spioventi, con una giacchetta che non riusciva a chiudersi sulla pancia. Don Eduardo si rese conto che aveva continuato a parlare al cellulare per tutto il tempo in cui lui parlava con la Marchesina. Mentre parlava gesticolava animatamente con l’ altra mano, che ogni tanto gli serviva per tirare su il pantalone che scendeva per la troppa foga.

Poi all’ improvviso si zittì, ripose il cellulare nella tasca interna della giacca e si avvicinò al libraio ed alla Marchesina. «Allora?» cinguettò la Marchesina. «Allora?» ripeté ansioso Don Eduardo.

Imbarazzato Leopoldo fissò Don Eduardo, poi si rivolse ad Assuntina e riferì: «Marchesi’, al Comune dice che a loro non tocca e che tocca alla Asl. Ho chiamato e non rispondeva nessuno. Allora ho chiesto a una cugina di mio cognato che lavora agli Incurabili che mi ha dato il numero di un suo parente che sta dentro ai rifiuti. Questo mi ha detto che se la zoccola è ancora intera devono andare quelli della rimozione animale che però poiché è un servizio esterno e non li stanno pagando da tre mesi, questi ci stanno andando un giorno si e uno no e nessuno gli può dire niente, per cui se ne parla domani mattina. Se invece la zoccola è scamazzata o putacaso squartata, ci manda subito una squadra di rifiuti speciali».

«Ah – si fece pensierosa la Marchesina – e mo’ come facciamo? Don Edua’ avete sentito? Quello il ratto è disgraziatamente integro…» sporgendosi a controllare meglio. «Marchesì, ‘o vulessemo scamazza’?» si fece avanti Leopoldo, mortificato per non aver ancora trovato la soluzione che gli era stata richiesta. Don Eduardo sentì tornare il panico mentre aveva ricominciato a sudare copiosamente.

Oramai si era fatto quasi mezzogiorno e cinque o sei ragazzini avevano cominciato a giocare a pallone approfittando della saracinesca di una pizzeria chiusa proprio di fronte ai bidoni dell’ immondizia dove stavamo nascosti, quando vedemmo zio Ferdinando uscire dalla saettella più avanti e dirigersi piangendo e sibilando verso zi’ Rafele. «Rafe’ – piangeva il vecchio topo – se ne è andata Carlotta mia… e mo’ che le fanno? Senza lei come faccio a campare… – e disperandosi pregava – San Francesco di Paola, lo sai che ti sono devoto. Fammela tornare o prenditi pure a me…».

Intanto i ragazzini avevano cominciato a fare un chiasso indemoniato, alternando le urla del gioco a sonori colpi dati alla saracinesca abbassata. A Don Eduardo che continuava a parlare con Leopoldo e la Marchesina si avvicinò un vecchio in sandali, canottiera e pantaloncini corti, dalla carnagione scura e le braccia completamente tatuate. «Dotto’ – disse all’ indirizzo del libraio – vogliamo vedere di levarla questa zoccola, che ci stanno pure ‘e criature che pazzeano». A rispondere fu Leopoldo «e perché non ‘a levate vuje? Qua ci sono dei contrattempi burocratici». Il vecchio lo guardò e disse «io? E io che c’entro? Poi a me mi fa schifo».

«Dovete vedere a me» stava rispondendo seccato Don Eduardo, quando una pallonata tirata male da uno dei ragazzini lo colpì facendolo saltare. Prese il pallone inferocito e caricò la gamba con l’ intento di scagliarlo il più lontano possibile. Ma per il calcio Don Eduardo era sempre stato poco dotato. Venne fuori un tiro sbilenco che invece di lanciare il pallone verso l’alto lo indirizzò diritto diritto verso il topo morto.

E qui avvenne quello che Don Eduardo non avrebbe mai immaginato. Zia Carlotta, colpita così violentemente, riprese improvvisamente coscienza. Evidentemente non era morta, ma doveva essere solo svenuta quella mattina al ritorno dalla nottata di gozzoviglie. Si alzò, e ancora con il segno della pallonata in faccia, cominciò a girare in tondo cercando di capire cosa stesse succedendo.

«Carlotta, Carlotta mia» cominciò ad urlare zio Ferdinando, mentre zi’ Rafele la chiamava «qua, corri qua, fai presto…». Zia Carlotta ci vide e ci raggiunse in un baleno mentre zi’ Rafele ed i piccoli già imboccavano la saettella da cui era sbucato zio Ferdinando poco prima.

Don Eduardo dapprima non capì niente di quello che stava succedendo, poi vide il topo rianimarsi ed andarsene via da solo, e tutto rosso e sudato sconocchiò sfogando tutta la tensione di quella mattina con un pianto liberatorio inginocchiato lì sulla strada. La Marchesina, Leopoldo ed il vecchio cominciarono a gridare «miracolo, miracolo, Don Eduardo ha fatto il miracolo». Poi accadde tutto in un attimo. Fofò corse fuori dalla bottega e dai palazzi si affacciarono le vecchie urlando, chiedendo, piangendo e pregando.

Qualcuno corse ad avvertire il prete della Chiesa situata poco più avanti. Monsignor Gregorio degli Uberti inforcò i paramenti, prese l’ acqua benedetta e corse verso il luogo del prodigio. Intanto i ragazzini avevano smesso di giocare ed assieme alle vecchie scese per strada intonavano un vecchio canto di ringraziamento alla Madonna che, era chiaro, aveva proprio Lei armato il piede di don Eduardo. “Andrò a vederla un di’, di stelle coronata….”, cantavano in coro. Presero Don Eduardo di peso e lo portarono a spalle dentro la chiesa, con la Marchesina Tazio che, estratto il suo rosario di avorio cinquecentesco, conduceva i cori di ringraziamento e girandosi alla folla festante diceva «il sindaco, deve fare il sindaco».

Tre giorni dopo, appena più sopra della saettella in cui era scappata la zoccola miracolata, don Luigino trovò una piccola edicola votiva. Dentro c’ era l’ effigie di un topo con il volto scavato da una pallonata e l’ iscrizione: D.O.M.D. FRANCISCO DE PAULA FERDINANDUS EX VOTO POSUIT – IN MEMORIAM CARLOTTAE, SURCULAM REDIVIVAM

ex voto

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